LES DEMOISELLES D'AVIGNON di Pablo Picasso
Pablo Picasso, Les demoiselles d’Avignon (1907, olio su tela, cm 244 × 233), New York, Museum of Modern Art.
Gertrude Stein, nel suo Picasso scrive:
Così egli rinnovò la sua visione, che era di cose vedute come le vedeva lui. Non bisogna dimenticare che la realtà del Novecento non è la realtà dell’Ottocento. Ci corre, e nella pittura, Picasso fu l’unico a sentirlo, l’unico. La lotta per esprimere questo si faceva sempre più serrata. Matisse e tutti gli altri vedevano coi loro occhi il Novecento, ma vedevano la realtà dell’Ottocento. Picasso era l’unico, nella pittura a vedere il Novecento coi suoi occhi, a vedere la realtà. La sua fu perciò una lotta terrificante, terrificante per lui e per gli altri, poiché per aiutarsi non aveva niente, il passato non lo aiutava, il presente non lo aiutava, doveva fare tutto da solo; e siccome a dispetto della sua grande forza, spesso è debolissimo, Picasso cercò conforto. Si consentì di venire quasi sedotto da altre cose che, quale più quale meno, lo portarono fuori strada.
Appena tornato da un breve viaggio in Spagna, da Gosol, dove aveva trascorso l’estate, conobbe Matisse, e Matisse gli fece conoscere la scultura africana. (…)
L’opera, è universalmente considerata il manifesto del cubismo, ed è nata attraverso un’elaborazione alquanto problematica. Picasso, sappiamo stava lavorando a un grande quadro in cui voleva rappresentare l’interno di un bordello, Les putains d’Avignon, con due figure maschili (un marinaio e uno studente) e cinque figure femminili (cinque prostitute, ovviamente). Idea questa che gli era venuta, frequentando egli stesso una casa di tolleranza di Barcellona sita in carrer d’Avinyò, durante un certo periodo di tempo, in cui si era separato da Fernande Olivier. I motivi che lo spinsero ad abbandonare l’immagine iniziale per quella definitiva, che tutti conosciamo e che, certamente, nacque con tutta una serie di azioni e riflessioni, furono almeno tre:
primo: l’osservazione della grande mostra del 1907 con 56 tele di Paul Cézanne – morto l’anno prima – al Salon d’Automne;
secondo: le sperimentazioni proto-cubiste dell’amico George Braque;
terzo: lo studio della scultura africana.
Immaginate quale folgorazione si fosse prorotta in una mente pronta come quella di Picasso, alla vista di una serie così vasta di dipinti del maestro scomparso, che aveva manifestamente dichiarato di voler “trattare la natura secondo il cilindro, la sfera, il cono...” Asserzione questa in cui si scorge una anticipazione teorica del Cubismo. Ma attenzione, perché, come ha ben spiegato Giulio Carlo Argan, il termine trattare non allude a un “risultato”, bensì a un “processo”, che Picasso recepisce e sviluppa fino in fondo.
Picasso capisce che il grande Cézanne aveva iniziato a rappresentare gli oggetti e lo spazio secondo le loro proprie qualità (forma sostanziale, geometria pura, colore, consistenza materica, linea funzionale, assi principali), scomponendoli per analizzarli e ricomponendoli, girandoci quasi intorno. A quel punto bisognava completare la ricerca, bisognava rappresentare le cose osservandole da punti di vista diversi (davanti, di lato, da dietro, da sopra, da sotto, da dentro), entrando nello spazio che le conteneva, smontando le cose e lo spazio, e ricomponendo tutto secondo una visione anti-prospettica e complessiva, secondo forme e volumetrie nuove, contenenti le diverse qualità di spazio e oggetti, non tutte le qualità precise, ma una penetrante analisi concettuale delle qualità dell’oggetto e dello spazio di partenza. Non bisognava più porsi davanti alla realtà da rappresentare, per vederla con gli occhi e studiarla, dato che era realtà già conosciuta. Ma porsi dentro e intorno a essa (a una realtà già tutta mentale) con un’osservazione e un’analisi altrettanto intellettiva e una restituzione visiva di essa in tutto e per tutto intelligibile. In questo completo procedimento consiste il cubismo analitico.
Les demoiselles d’Avignon , particolare: i volti sono visti, nello stesso tempo, frontalmente e col naso disegnato di profilo.
Les demoiselles d’Avignon , particolare: due delle demoiselles hanno i volti orribili di primordiali maschere africane.
Les demoiselles d’Avignon , particolare: una di esse riassume nel volto i lineamenti iberici e la scultura africana.
Les demoiselles d’Avignon restarono a lungo nello studio dell’artista senza essere potute vedere dal grande pubblico, nonostante fossero conosciute da molti estimatori e amici di Picasso e avessero suscitato in essi reazioni di meraviglia, o addirittura di disgusto, come nel caso di Braque. Ma l’opera fu esposta per la prima volta soltanto nel 1916, e una seconda volta nel 1937.
Si tratta in effetti di un quadro di grandi dimensioni, nel quale sono raffigurati cinque personaggi, cinque personaggi femminili: delle prostitute, disposte interamente nello spazio del quadro. Che è il loro irriconoscibile bordello, dentro cui trova posto pure una natura morta. Quattro delle cinque donne sono messe in piedi, mentre una è seduta su un basso panchetto, con accanto un tavolinetto con sopra della frutta. Due di esse, poste in posizione centrale, hanno fisionomie latine, con capelli bruni e occhi grandi e scuri. I loro volti sono visti, nello stesso tempo, frontalmente e col naso disegnato di profilo. Nei loro volti in buona sostanza si concretizzano una vista frontale e una laterale. I loro sessi sono coperti da drappi spigolosi, ma pure i loro corpi sono spigolosi ed emergono da uno spazio frantumato e altrettanto spigoloso, spinto in primo piano, a cercare un pezzo di superficie della tela per rivelarsi. Sono pezzi dello spazio, esploso e sminuzzato, ridotto in schegge taglienti, come quelle di uno specchio andato in frantumi, che premono intorno ai corpi semi-smontati delle signorine. Altre due demoiselles, dipinte l’una sopra l’altra, hanno i volti orribili di primordiali maschere africane, sono come idoli di un mondo selvaggio andato per sempre perduto. O uno spiritato gruppo muliebre di maliarde alle prese con un rito propiziatorio. Una di esse si affaccia paurosamente aprendo una tenda ridotta in lame taglienti, col suo corpo che pare scolpito grezzamente nel legno, mentre l’altra, seduta, ha il corpo disfatto e visto di spalle, con la mostruosa testa innaturalmente ruotata verso lo spettatore. Anche in questo caso l’oggetto è visto contemporaneamente davanti e didietro. La quinta signorina occupa la sinistra del quadro, col corpo visto lateralmente e in parte smontato, colla faccia che riassume sia le maschere africane che i lineamenti iberici, in una specie di sintesi. Sembra che entri in scena da una tenda marrone ridotta in lastre rigide, ma tutto è rigido e spigoloso, volutamente disegnato con un tratto deciso ma primitivo, quasi come in una narrazione di una civiltà arcaica e tribale. Il brutto appare per la prima volta in una tela del maestro spagnolo, come elemento caratterizzante e distruttore del bello, cui Picasso non aveva mai saputo rinunciare, nemmeno nel periodo blu, ove i poveri e gli emarginati sono comunque belli, oltre che dignitosi.
© G. LUCIO FRAGNOLI
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