LE GRAZIE di Antonio Canova


 

Le Grazie, Victoria and Albert  Museum di Londra.

  

  

Le Grazie, Ermitage di San Pietroburgo.

 

ANALISI DELL'OPERA


Del soggetto esistono due elaborazioni pressoché uguali, che si diversificano soltanto per alcuni insignificanti dettagli: la prima, ora conservata all’Ermitage di San Pietroburgo, fu commissionata dalla prima moglie di Napoleone, Giuseppina di Beauhrnais, ed eseguita tra il 1812 ed il 1816; la seconda, ora al Victoria and Albert  Museum di Londra, fu realizzata per John Russell, duca di Bedford, tra il 1814 ed il 1817.   

Nell’opera Canova rappresenta le dee con un significato strettamente legato alla tradizione mitologica greca e romana. 

Infatti, nell’antichità greco-romana, le Grazie o Cariti (da chairein, rallegrarsi), figlie di Zeus ed Eurìnome, erano Aglàia (ornamento), Eufròsine (gioia) e Thalìa (pienezza). 

Da loro  dipendeva la piacevolezza della vita e dei rapporti umani, legati alla gentilezza dei modi, alla buona conversazione e alla raffinatezza di spirito. Per tutto ciò venivano associate sia alla dea Afrodite, sia al dio Apollo. Chiamate col nome di Grazie dai romani, in origine venivano rappresentate vestite, poi ricoperte di veli ed infine nude – Va, dunque, assolutamente esclusa ogni diversa accezione, specialmente la rinascimentale e botticelliana esegesi del tema in chiave neoplatonica, che identifica le divine fanciulle in Castitas, Pulchritudo e Voluptas – .

Il gruppo scultoreo è quindi un chiaro omaggio  al mondo classico e ai grandi statuari greci, da Fidia a Prassitele, ineguagliabili in perfezione, purezza e armonia formale. 

Nelle sue Grazie, Canova introduce, rispetto ad altre rappresentazioni precedenti, un importante elemento di novità, costituito dalla posizione di ogni singolo personaggio rispetto al riguardante. Difatti, la dea centrale è disposta frontalmente, mentre cinge in un delicato abbraccio le altre due, una colta di fianco e l’altra quasi di spalle che, a loro volta, l’abbracciano in un moto circolare dei gesti e di reciprocità degli sguardi, nel candore e nelle espressioni minimali dei volti, tutti sorpresi di profilo. 

La vista privilegiata è, chiaramente, quella frontale, che trasmette un senso di equilibrio complessivo e una percezione di moto elegante e leggero, in cui tutte e tre si offrono al riguardante nella loro bellezza, pura e incolpevole, velatamente virtuosa, in una sorta di sublime e sottaciuto inno alla vita. 

La scultura è stata ottenuta in un unico blocco, dove la rappresentazione ideale del corpo umano e compiutamente enunciata. 

Le figure sono plasmate in una morbida ed elegante snellezza, e nell’ossessione tutta canoviana di rendere il marmo tenero come la carne, con un rigoroso lavoro di levigatezza delle superfici, su cui l'artista applicava uno strato di cera per mitigare la freddezza del marmo.

Molti storici dell’arte, fino a qualche tempo addietro, rimproveravano a Canova il gelido erotismo emanato dalle sue creazioni, ignorando la volontà stessa dello scultore.

“L’artista neoclassico”, come ha puntualizzato Honour, “si proponeva di essere naturale e non naturalistico. Egli voleva purificarlo (il nudo, n.d.a.) dalle accentuazioni erotiche che avevano spinto Diderot a lamentarsi: Ho visto abbastanza seni e pubi... questi oggetti seducenti contrastano le emozioni dell’animo eccitando i sensi. Egli esaltava l’innocenza, la inadorna semplicità, l’essenziale purezza del nudo...”

Nella concezione illuminista, quindi, “il nudo rappresentava l’uomo spogliato da tutti gli ingannevoli elementi esterni, così come la natura lo aveva fatto: liberato cioè da tutte le pastoie del tempo, come visto come contro uno sfondo di eternità.”

Altri critici e storici rifiutavano, invece, l’inespressività delle figure canoviane, non tenendo conto che il Neoclassicismo è fondamentalmente uno stile puro. E Canova ha elaborato, in adesione alle idee neoclassiche, una visione estetica (che è ulteriormente etica e morale) incontaminata dalle passioni, in una dimensione di bellezza assoluta ed eterna, perché immobile nella sua alta liricità e pulizia morale. È la catarsi, propria dell’arte classica, splendidamente realizzata.

  

Ugo Foscolo, Protasi delle Grazie, Inno primo, vv. 1-27

 

Cantando, o Grazie, degli eterei pregi

di che il cielo v’adorna, e della gioia

che vereconde voi date alla terra,

belle vergini! a voi chieggio l’arcana

armoniosa melodia pittrice                                         5

della vostra beltà; sì che all’Italia

afflitta di regali ire straniere

voli improvviso a rallegrarla il carme.

Nella convalle fra gli aeri poggi

di Bellosguardo, ov’io cinta d’un fonte                      10

limpido fra le quete ombre di mille

giovinetti cipressi alle tre Dive

l’ara innalzo, e un fatidico laureto

in cui men verde serpeggia la vite

la protegge di tempio, al vago rito                               15

vieni, o Canova, e agl’inni. Al cor men fece

dopo la bella Dea che in riva d’Arno

sacrasti alle tranquille arti custode;

ed ella d’immortal lume e d’ambrosia

la santa immago sua tutta precinse.                             20

Forse (o ch’io spero!) artefice di Numi,

nuovo meco darai spirto alle Grazie

ch’or di tua man sorgon dal marmo. Anch’io

pingo e spiro a’ fantasmi anima eterna:

sdegno il verso che suona e non crea;                          25

perchè Febo mi disse: Io Fidia primo

ed Apelle guidai con la mia lira

 

 

LE GRAZIE O CARITI.

 

Il nome di Cariti deriva da chairein, ossia rallegrarsi. Figlie di Giove ed Eurinome, dea di tutte le cose, esse erano: Aglàia (ornamento), Eufròsine (gioia) e Thalìa (pienezza). Da loro dipendeva la piacevolezza della vita e dei rapporti umani, legati alla gentilezza dei modi, alla buona conversazione ed alla raffinatezza di spirito. Per tutto ciò venivano sempre associate sia a Venere che ad Apollo. Il loro culto era diffuso specialmente ad Orcomene in Boezia, ma erano venerate in altre città greche. Chiamate col nome di Grazie dai romani, in origine venivano rappresentate vestite, poi ricoperte di veli e infine nude.

 


Le Grazie di Thorvaldsen.

 

 Le Grazie di Raffaello.


Le Grazie di Rubens.

 

 

VITA IN BREVE DI ANTONIO CANOVA



Antonio Canova nacque a Possagno, nei pressi di Treviso, nel 1757, ma si trasferì ancora giovanissimo a Venezia dove studiò all’Accademia, maturando una formazione classica, aprendovi anche un proprio atelier nel 1775. Nel 1779 si guadagnò grandi riconoscimenti col gruppo scultoreo  Dèdalo e Icaro, esponendolo alla festa dell’Ascensione. Nel 1781 lo scultore si trasferì a Roma, subendo subito l’influenza delle idee di Mengs e di Winckelmann, potendo anche osservare modelli importanti della statuaria classica. Nel 1783 gli venne commissionato il monumento funebre di Papa Clemente XIV, e l’anno appresso quello di Papa Clemente XIII. Canova lavorò prevalentemente a Roma, risiedendovi pure per il resto della vita, ad eccezione di vari soggiorni nei luoghi di origine e dei viaggi a Vienna, a Parigi e a Londra. Tra il 1798 ed il 1803, realizzò il monumento funebre a Maria Cristina d’Austria. Al culmine della notorietà, nel 1804, Canova ritrasse Napoleone, ottenendo di seguito moltissime commissioni da committenti nobili e facoltosi di mezza Europa. Si spense a Venezia nel 1822.

 

BREVIARIO DEL NEOCLASSICISMO


Il neoclassicismo è lo stile che, nato a Roma, s’afferma a partire dal 1770 circa, e che ha come antefatto culturale quel grande movimento di idee noto col termine di illuminismo. Gli illuministi, attraverso il libero pensiero, si proposero di realizzare un mondo nuovo, governato da leggi ispirate all’uguaglianza sociale, cancellando per sempre i privilegi del clero e di una nobiltà inetta e in piena decadenza morale. La conseguenza storica dell’illuminismo, furono prima la rivoluzione americana e poi la rivoluzione francese. La rivoluzione francese nacque dal supremo disegno di creare una società «stabile ed armoniosa» per dirla con le parole di Isaiah Berlin «fondata su principi immutabili: un sogno di perfezione classica…» I dogmi, il rigido 'assetto sociale e gli arcaici privilegi dell’antico regime crollarono sotto la luce della ragione e di un idealismo intransigente. Con la stessa forza rivoluzionaria, il neoclassicismo segnò la fine del capriccioso, polveroso, sensuale e fatuo rococò. La chiarezza della ragione vinse sui mendaci e confusi artifici del dogma.

Il termine di neoclassicismo, che fu coniato alla fine dell’Ottocento in senso spregiativo, farebbe pensare ad una corrente artistica di mero e convenzionale rifacimento dell’arte greca e romana.  Fu   al contrario un movimento eversivo e travolgente, che mirò a realizzare un risorgimento delle arti, una rinnovata rifioritura artistica simile a quella rinascimentale. Gli artisti e i teorici lo chiamavano semplicemente il vero stile.

Un vento di trasformazione cominciava a soffiare nei salons parigini, rinfrescandone l’atmosfera chiusa e profumata, eliminando curve e codini rococò, soffiando via gli ornamenti delicatamente fragili: boccioli di rosa e conchiglie e cupidi incipriati con i sederini delicatamente imbellettati come le guance, tutte le figure della commedia dell’arte in posa e le altre squisite frivolezze e perversità che avevano fatto la delizia di una società di gusti difficili, ultrasofisticata… (Hugh Honour).

Il teorico del “vero stile” fu J. Winckelmann, il quale sosteneva che bisognava “imitare”  i grandi maestri antichi. Ma imitare non significava – secondo il suo pensiero - copiare, bensì fare propri ed utilizzare i modelli e i canoni estetici degli artisti antichi, in un processo catartico di produzione del nuovo e del moderno. Ed infatti, il neoclassicismo è a tutti gli effetti uno stile moderno, come moderna è la neoclassica estetica del sublime, che si riassume in superamento della contemplazione, con un forte coinvolgimento spirituale e sentimentale nel godimento della bellezza.  

Il neoclassicismo nacque per reazione al rococò, ma divenne ben presto uno stile profondo, portatore di alti valori etici e morali, avversatore dei dogmi e dell’ignoranza, della superstizione e della dissolutezza. Il suo decadimento fu dovuto alla banalizzazione che ne fece il periodo napoleonico, che ne fece uno stile celebrativo e retorico, rappresentativo della grandeur imperiale. Cosa questa che favorì la graduale affermazione del romanticismo anche in chiave antifrancese. Molti pensano, sbagliando, che neoclassicismo e romanticismo siano due contrapposte e del tutto differenti correnti artistiche. Per come la penso io, il romanticismo fu l'evoluzione naturale del neoclassicismo, che aveva esaurito ben presto i suoi temi e la sua linfa innovativa. Sia l'uno che l'altro movimento procedettero insieme per un certo periodo ed ebbero molto in comune, compresa l'estetica del sublime. Erano, in buona sostanza, quasi due facce della stessa medaglia, rappresentavano entrambe quel mondo e quella società moderna che stavano nascendo impetuosamente, e spesso una corrente sconfinava e si cibava nell'altra, o la negava con violenza, dimostrano implicitamente di riconoscerla come riferimento importante. Diversi erano però e i temi e la rappresentazione degli stati d'animo. Diversa era la visione dell'uomo, che stava diventando l'unico libero padrone delle proprie idee e delle proprie creazioni.     














© G. LUCIO FRAGNOLI

 Fonti bibliografiche: NEOCLASSICISMO, Hug Honour, Einaudi, 1993.


IL POST SOPRA RIPORTATO HA SCOPO ESCLUSIVAMENTE DIVULGATIVO, ED È RIVOLTO PERTANTO AGLI STUDENTI E AGLI APPASSIONATI.

 

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